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Un balconcino piccolo, discreto, sotto cui, a primavera, annodate si snodavano le viti, sistemate a tendone. Da lontano, tra il verde, l’occhio riconobbe un’appena accennata lingua di mare, estendersi tra la costa e i Monti Lattari, come in un abbraccio. Mi sembrò d’essere su di un lago e non sul mare. Intorno, il silenzio profondo e la terra scura del Vesuvio.
Da allora, diverse volte, ho imboccato il primo tratto della A3, che da Napoli conduce a Reggio Calabria. Ogni volta, giunta all’altezza di San Giorgio a Cremano e Portici – tra i diciannove comuni che, intersecandosi ad arte, vestono il più famoso vulcano italiano – la luce cambia.
Sotto il nome di Paesi Vesuviani, si raccoglie, come nel palmo di una mano, un pugnetto di terra, che costituisce la provincia di Napoli, brulicante di case e ricca di biodiversità, classificata dalla Protezione Civile come zona rossa. A sinistra, la vista è interrotta dall’imponenza del Vesuvio e del Monte Somma, mentre a destra la corsia corre parallela alla costa. Percorro il tratto d’autostrada posta all’altezza della SS 18 Tirrenia inferiore, un tempo strada regia delle Calabrie, che dagli Scavi archeologici di Ercolano conduce a Torre del Greco. Questa, chiamata del Miglio d’Oro, è la zona delle ville settecentesche, realizzate dal clero e dalla nobiltà partenopea, allettate dal privilegio dell’esenzione fiscale concessa da Carlo di Borbone, salito al trono del Regno di Napoli nel 1735.
Sono diretta da Degna a Boscotrecase. Addentrandomi negli abitati, l’esuberante rococò è aggraziato dall’eleganza del neoclassico, aprendo, inaspettate, parentesi di armonica bellezza strappata all’abusivismo edilizio. Ogni comune, si porta dentro la dualità: l’ombra imponente del vulcano che invade prepotente lo spazio; la luce del sole che, riflettendosi nel mare di questa porzione del Golfo di Napoli, diviene più intensa. L’ombra fa più ombra e la luce illumina più del solito. Tutto è più intenso e netto, compresi gli odori.
Sprigionava aromi avvolgenti ‘o paniello regalatomi da Maria Luisa, amica vesuviana. A prepararlo, era stata la mamma di sua cognata Elena. Il naso era allietato dal profumo intenso del lattice di fico, che bagna il gambo della foglia quando viene recisa dall’albero, e quello inconfondibile della buccia di mandarino.
Sono sulle tracce di una ricetta antica, tramandata di generazione in generazione, messa nel corredo delle donne di questa terra. «Mi fa ricordare l’infanzia», racconta Degna d’avanti ad uno scoppiettante camino, «Mia nonna era originaria di Casavitelli, uno dei quartieri di Boscotrecase. Aveva in quel luogo dei terreni e, durante le feste, i coloni ci regalavano dei prodotti, tra cui c’era questo panetto dolce, che chiamavano ‘o paniello. Sono originaria di Boscoreale, anch’esso tra i Paesi Vesuviani. È qui vicino. Ho riscoperto ‘o paniello quando ci siamo trasferiti a Boscotrecase. Li acquistavo in salumeria sotto casa. Erano quelli della signora Clotilde. Poi, per problemi di salute, smise di portarli e, allora, mi venne la curiosità di farli a casa, confrontando diverse ricette. Una mi piacque molto. Quella divenne, per sommi capi, la mia».
È preparato per il periodo natalizio, come si fa a Napoli per i roccocò o gli struffoli. Per l’Immacolata, è donato dai boschesi alla chiesa dell’Annunziatella, la più antica del centro storico, e venduto per beneficenza. A Boscotrecase viene chiamato ‘o paniello, mentre a Trecase ‘o suricillo. A cambiare è solo la forma, allungata nel primo caso.
La riduzione di mosto di piedirosso, vitigno scalpitante che assume l’irrequietezza della terra vesuviana, è base per la preparazione. Degna utilizza quello ricavato dalle uve della cantina di suo figlio, giovane realtà imprenditoriale del territorio.
Nel vesuviano, il piedirosso è vendemmiato ad ottobre inoltrato. Per fare una buona riduzione di mosto, occorre che la preparazione avvenga il giorno stesso in cui l’uva è macinata.
In questo modo, conserva la dolcezza che non è stucchevole, ma piacevole. Si cuoce a fuoco lento, dalle cinque alle sette ore. Poi, si conserva e utilizza per insaporire diverse preparazioni.
Il caso ha voluto che ‘o paniello donatomi da Maria Luisa fosse fatto da Liberata, figlia di Clotilde, l’anziana signora di Boscotrecase di cui Degna mi ha parlato. Ella continua ancora a preparare il dolce sotto l’occhio vigile della madre, secondo la ricetta di sua nonna Rosa.
A macerare nella riduzione di mosto di piedirosso, dai quindici ai venti giorni, ci vanno i fichi secchi (varietà signorelle, tipica del Vesuvio, raccolti ad agosto, lavati in acqua con il sale ed essiccati). Questi vengono tagliati in modo grossolano e immersi nel purpureo liquido insieme con prugne, noci, anice o finocchietto, bucce di arancia e mandarino, aggiunte in ultimo affinché conservino gli olii essenziali. Non si cuoce. Dovrà assumere una bella consistenza, che permetterà di passare alla seconda fase.
«A questo punto, si deve dare la forma», spiega Liberata, «Per farlo si prendono due foglie di fico. Si mettono sulla mano, una a destra e l’altra a sinistra. Sopra ci va una foglia di limone e poi si posiziona il composto. Si inarca un poco il palmo per tenere tutto dentro. Si copre con un’altra foglia di limone e si richiudono quelle di fico, come se si volesse fare un pacchetto. Si infornano per quindici minuti. Quest’anno, mi ha aiutato a farli la mia nipotina Angelina».
Nella preparazione, non viene aggiunto né miele né zucchero, ma sono di grande dolcezza. Dal sapore antico, raccontano un territorio ricco di prodotti eccellenti, dove gli ulivi strappano lembi di terra alle viti che, se pur addomesticate, sembrano conservare il movimento, gioioso e inqueto allo stesso tempo.
A Torre Annunziata, nei pressi degli scavi archeologici di Oplontis, istantanea ferma al 79 d.C., riprendo la A3 che mi riporterà al centro di Napoli. La strada scorre. Il tramonto è roseo. Il Vesuvio, in primavera pieno di ginestre, è coperto da un’elegante coltre bianca. La luce dorata illumina la chiesa posta sul Colle di Sant’Alfonso. Da lì, si scorge l’intero Golfo di Napoli, da Punta Campanella, passando per l’isola di Capri, fino ai Campi Flegrei, di cui, quando è bel tempo, distinte si riconoscono le due sue isole, Procida e Ischia.
articolo di Gemma Russo